SaggeInterviste: Carlo Carletti e la fotografia di matrimonio

Parlando di fotografia è facile sentire dei nomi ricorrenti, grandi maestri del passato che hanno saputo raccontare con le immagini un punto di vista unico e riconoscibile. Nella maggior parte dei casi il loro lavoro è strettamente legato al periodo storico in cui hanno vissuto (o vivono), non soltanto per l’estetica ma anche per il contenuto. Probabilmente non si può prescindere dalla conoscenza di questi artisti, ma trovo altrettanto importante studiare lo stile, la tecnica ed il messaggio dei grandi fotografi contemporanei. Carlo Carletti è uno di questi ed essendo italiano per noi è ancora più facile sentirsi in qualche modo legati al suo lavoro. È l’unico ad aver vinto per due volte (nel 2006 e nel 2010) il prestigioso premio di fotografo dell’anno per la Wedding Photojournalistic Association (Stati Uniti), ma probabilmente questo non è sufficiente a delineare la misura dell’uomo dietro la macchina fotografica.

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Mi ha gentilmente concesso una chiacchierata, ma non è cosa semplice riuscire a fargli domande a cui non abbia già risposto nelle numerose interviste rilasciate nel corso degli anni. Tuttavia sono ansioso di conoscerlo meglio e non posso che iniziare chiedendo:

C’è un momento preciso in cui è nata dentro di te la passione per la fotografia oppure è sempre stata lì, anche prima di diventare un fotografo?

Questo è sempre un mistero, ma per certi versi quella del fotografo è una vocazione, quindi suppongo che sia sempre stata latente. Ho cominciato a fotografare negli anni ’80 all’università, per passione. Era già da tanto che ci pensavo, ma al tempo era un hobby costoso: dovevi comprare la macchina, i rullini, fare i provini, le stampe. Oggi è molto più sostenibile. Dopo aver iniziato passavo più tempo a fotografare che a sostenere gli esami, però alla fine mi sono laureato in legge, anche per far contenti i miei genitori. Se vogliamo sono stato un precursore in questo, perché oggi molti ragazzi dopo l’università fanno tutt’altro lavoro, mentre all’epoca non era usuale. Ho iniziato da amatore e ho imparato tutto il possibile di camera oscura, acidi, sviluppo, spesso facendo anche tarda notte. Dopo laureato ho maturato l’idea di fare il fotografo, ovviamente in contrasto con i miei genitori.

Quando hai aperto il tuo primo studio avevi già le idee chiare sul percorso da seguire e gli obettivi da raggiungere oppure speravi soltanto, come tanti fotografi, di riuscire a trasformare la passione in attività?

La seconda che hai detto. Non avevo obiettivi chiari, anzi ho aperto lo studio pensando di non fare matrimoni. Aprii a Poggibonsi, in una zona industriale, con l’idea di lavorare nel campo della pubblicità e dell’architettura, ma era già difficile a quel tempo (nel ’95) trovare gli spazi necessari. Così ripensai all’idea dei matrimoni, ponendomi però la condizione di farli solo in una certa maniera. Proposi alla clientela lavori in bianco e nero, all’epoca a pellicola (quindi che rimanevano tali, va precisato) già con un approccio reportagistico. Fu difficile all’inizio, ma poi trovai soddisfazione, soprattutto con una clientela straniera che a quei tempi iniziava a venirsi a sposare in Toscana. Ho ottenuto i primi riconoscimenti e la cosa mi piacque sempre di più perché vedevo che il matrimonio poteva rappresentare un layout dentro il quale raccontare una storia per immagini. Quindi partii generico, ma poi confluii più convintamente nel grande quadro della fotografia di matrimonio con una strada mia. Oggi fare reportage di matrimoni è comune, ma all’epoca era una sfida, sopratutto in bianco e nero.

Qual è stato, per sommi capi, il tuo percorso formativo?

Principalmente da autodidatta. Ho frequentato per anni un serio circolo fotografico che non era tanto impegnato in tecnicismi ma aveva una forte valenza culturale. Poi ho cominciato a studiare in autonomia camera oscura, sistema zonale e tutto il resto. Per me la formazione avviene attraverso la letteratura fotografica, anche perché per fare reportage non servono chissà quali grandi nozioni tecniche, ma ci vuole una visione. Ed io ho cercato di nutrirla fin dall’inizio attraverso libri fotografici e storia della fotografia.

E i momenti più significativi nella tua storia di fotografo?

Sicuramente nel ’95, quando una coppia inglese venne allo studio per un matrimonio nella zona del chianti, fenomeno ai tempi piuttosto raro. Mi chiesero se avessi potuto fargli il servizio, ma gli dissi subito che non mi interessavano le foto comuni dei matrimoni e gli proposi la mia visione di un reportage in bianco e nero. Loro accettarono sulla base delle mie parole, senza vedere nulla, e così realizzari il mio primo reportage di matrimonio. Poi ci sono state tante altre tappe significative nel corso tempo, ma quello fu il momento che mi portò a spingere l’acceleratore verso il mondo del wedding.

Se dovessi indicare uno o più nomi di fotografi che hanno contribuito ad accrescere la tua ispirazione e la tecnica, a chi penseresti?

In primis a Gianni Berengo Gardin, secondo me il più grande fotografo italiano. Le sue foto sono state per me grande motivo di ispirazione, probabilmente è per loro che ho iniziato a fotografare. Fin dall’inizio ho pensato di fare i matrimoni come li avrebbe fatti lui. Penso a certe immagini come il vaporetto, quelle di Venezia, le coppie piccole nella campagna toscana, certi baci fotografati alla stazione. Lui è stato il primo ispiratore e poi c’è anche tutto il reportage francese di Doisneau e Bresson.

Spesso il lavoro su commissione viene visto come un limite per l’espressività. Tu pensi che sia necessario imporre categoricamente il proprio stile fotografico sui clienti o mediare per la loro soddisfazione?

Io penso che bisogna essere sinceri, onesti, appassionati. Ci si dice “io voglio fare questo” e si prosegue per quella strada. Bisogna avere uno stile ed una propria riconoscibilità, evitando anche l’occasione di un servizio in più se si rischia di contaminarsi e perdere identità. Non dico che bisogna essere ortodossi, ma bisogna perseguire una propria poetica ed un filo conduttore.

Ti è mai capitato di rifiutare un matrimonio perché gli sposi ti richiedevano qualcosa che non era nelle tue corde?

No, perché non mi sono mai trovato in situazioni così fortemente conflittuali, anche perché di solito chi mi contatta conosce già il mio lavoro. Però mi è capitato di arrabbiarmi in loco, perché magari non incontravo prima la coppia (essendo stranieri, ndr) e il giorno del matrimonio si presentavano con una lista di persone da fotografare. A quel punto dici: “se lo sapevo prima…” Però alla fine ti adegui, sono piccoli disagi che fanno parte del rischio professionale (chiamiamolo così).

Avendo iniziato a fare foto nell’era analogica, come hai vissuto il passaggio al digitale? È stata più una necessità o hai riscontrato una serie di vantaggi concreti?

Devo ammettere che è stata la necessità, perché altrimenti io apparterrei culturalmente alla vecchia guardia. Alla fine mi sono aperto al digitale, ma non senza una certa refrattarietà. Il fatto è che già intorno al 2005 non era più possibile fornire servizi a pellicola, perché rischiavi di essere un po’ obsoleto. Però non sono un fan del digitale, intendo dire che secondo me questo non ha contribuito a formare fotografi più bravi. Anzi, paradossalmente si sta tendendo a riprodurre uno stile vintage.

Sentiamo spesso dire che la fotografia analogica è “più poetica” e che ti costringe ad essere “più attento” al singolo scatto. Tu sei d’accordo? E, soprattuto, potresti rinunciare ai vantaggi del digitale nel tuo lavoro?

Io trovo che l’emozione della pellicola, dello scatto unico, sia anche molto legata alla perizia del fotografo. Il digitale ha reso le cose più facili, questo sicuramente, però se da una parte è stato un’aiuto dall’altra ha ammorbidito il “mood” del fotografo, rendendo tutto “più banale”. Oggi non mi sognerei di tornare a fare foto in pellicola, però, anche se apprezzo i vantaggi del digitale, non penso che ci abbia dato qualcosa a livello creativo.

Oggi i fotografi (anche gli amatori) hanno più attrezzatura di quanta ne serva o ne sfruttino realmente. Sei d’accordo con questa affermazione?

Eh sì, si presentano tutti bardati di giubbotti, lenti, corpi macchina. Koudelka ha fatto un pezzo di storia della fotografia e si dice usasse solo una Leica con un 50mm. Voglio dire che tante volte il limite nell’arte aguzza l’ingegno e il dover adattarsi a pochi mezzi stimola la creatività. Io mi porto un 24-70 per praticità (e per non rischiare), ma se posso uso solo una macchina con il 28 ed un’altra col 50. Così penso di più alla fotografia, alla visione. Non credo che lenti più o meno esclusive possano fare la differenza.

Sensori, gamma dinamica, rapporto segnale/rumore, ecc.. Quanto ti interessano questi aspetti meramente tecnici e in che misura influiscono o hanno influito sulla scelta della tua attrezzatura?

Non mi interessano molto. Io sono tornato di recente a scattare con Leica, della quale apprezzo molto la qualità del recente sensore, ed è il rapporto con la macchina fotografica che mi interessa. È come il chitarrista che ama la sua chitarra vintage e suona solo con quella. Ho visto che questa Leica ha un bel file, ma non l’ho scelta perché aveva una certa risoluzione o una particolare specifica tecnica. Ti faccio l’esempio di Leica perché è al di fuori del classico dualismo Canon e Nikon. Io ho usato entrambe ed ho ancora i relativi corredi, presi seguendo le indicazioni tecniche del momento, però non sono un fan di nessuna delle due. È un tipo di linguaggio che non ha una grande presa su di me, mi piace pensare alla macchina fotografica come strumento personale per esprimersi. La Leica M-P permette un silenzio, una non intrusività, sembri uno capitato per caso che non invade e contamina l’ambiente. E ho potuto riutilizzare gli straordinari 28, 35 e 50mm che già possedevo. Il problema è che ce ne vogliono due e costano 7000€ l’una.

Ultimamente fanno molta notizia i fotografi famosi che abbandonano le reflex per passare alle mirrorless di Olympus, Fujifilm e Sony (ma non solo). Ne hai mai provata qualcuna? Pensi che siano sufficientemente mature da poter essere utilizzate professionalmente, ad esempio, per un matrimonio?

La Fuji ce l’ho avuta ed è diffusissima, mi sembra vada molto bene. Però alla fine è un girarci intorno perché sono tutte ispirate alla Leica a telemetro come struttura e controlli, anche se costano molto meno. Si possono usare nel lavoro ma secondo me sono ottime per divertirsi, da portare dietro per un uso informale. È un aspetto molto importante perché rivela l’esigenza del fotografo di non fare solo le foto relative alla sua professione. Volevo comprare anche la Sony A7, però poi ho colto l’occasione del centenario di Leica per ritornare al vecchio amore.

Guardando i tuoi reportage di matrimonio ho notato che spesso i clienti sono stranieri che si sposano in Italia. È una tua scelta precisa oppure è semplicemente capitato, frutto di eventi casuali?

È stata più che altro una casualità, fin da quel primo incontro con gli sposi inglesi di cui ti ho parlato. Nel tempo l’ho vista come una specializzazione, che mi ha consentito di rompere le barriere territoriali e girare in diverse location. Lavoro anche con gli italiani, però forse hanno le idee meno chiare e tendono a cercare il prezzo più basso su internet. Magari oggi la situazione è migliorata, però ho notato che i clienti stranieri riconoscono il fotografo di posa, quello di reportage e scelgono con più determinazione.

Si può seguire un intero matrimonio con il solo reportage, dalla casa fino alla torta, oppure è necessario anche inserire delle foto più tradizionali (ad esempio quelle con i parenti)?

Purtroppo le foto di gruppo sono imprescindibili, ti pagano anche per questo e non puoi rifiutarti. Dopotutto va documentato anche l’aspetto formale dei rapporti. Ci sono certi momenti che non possono mancare, come l’ingresso in chiesa, lo scambio degli annelli, le firme. In nome del reportage non puoi stravolgere completamente un matrimonio e le foto di gruppo sono una piccola concessione che va fatta.

Di solito guidi gli sposi per assumere determinate posizioni oppure preferisci essere invisibile e cercare di catturare i momenti e le atmosfere che si presentano spontaneamente?

Io cerco di essere invisibile, fintanto che mi è possibile. Ad esempio nei preparativi, in chiesa, durante gli aperitivi, la cena. C’è solo un momento, finita la cerimonia, in cui il fotografo rimane solo con gli sposi e non può dire “fate le vostre cose che io vi seguo”, perché il racconto rischierebbe di essere troppo debole. Però non gli faccio fare cose particolari, io mi allontano e gli suggeriscono di camminare, correre, abbracciarsi. Cerco di renderli il più spontanei possibile e non gli dico di assumere una determinata posizione. È più un invito a liberarsi, a divertirsi, quasi più sotto il profilo psicologico che formale.

Non sempre la location è particolarmente attraente e gli sposi collaborativi e disinvolti, in questi casi come ci si assicura di portare a casa delle belle fotografie?

Sulla location, tutto è relativo, ma se è proprio debole spingo di più sul reportage, lo estremizzo. Cerco di rompere le regole, accentuare il dinamismo e fare foto meno prevedibili, il tutto per sopperire alle mancanze del luogo. A me piace fare vedere l’ambiente, ma se è debole è meglio sfocare lo sfondo, concentrarsi sui dettagli, usare espedienti di questo tipo. Se la coppia è fredda bisogna capirne il motivo. Ce ne sono alcune, diciamo alto borghesi, a cui non piace farsi vedere troppo euforiche e ci tengono ad un certo contegno formale. In questi casi non si può forzare tanto e deve prevalere l’esigenza del cliente. Quando invece entra in gioco la timidezza e la preoccupazione del farsi fotografare, allora cerco di coinvolgerli, gli faccio vedere le foto, la prendo con pazienza, parlo di altre cose. Diciamo che faccio un po’ di psicologia al volo per farli sentire a proprio agio.

Avendo ormai all’attivo tantissimi reportage di matrimonio, come riesci ad evitare di ripetere certi schemi e presentare sempre un lavoro diverso e originale?

Ad essere onesti non è detto che ci si riesca sempre. Se cambia la location, l’atmosfera, le classi sociali, allora si riescono a fare matrimoni diversi. Però ci sono dei posti dove lavoro molto spesso e il rischio del cliché è sempre dietro l’angolo. In questi casi cerco di marcare le differenze nella fase dei preparativi, nella cena, dove ci sono i rapporti veri. Punto all’emozionalità che contraddistingue un matrimonio rispetto ad un altro, perché nella stessa chiesa, per esempio, non puoi fare un servizio completamente diverso.

I tuoi album hanno una struttura abbastanza costante (suddivisa nei classici preparativi sposa, sposo, chiesa, esterna, ristorante, torta, balli) oppure decidi di volta in volta in base alle foto?

Guarda, l’album non è detto che venga fatto tutte le volte. Lo posso proporre, ma negli ultimi anni con gli stranieri si lavora molto consegnando gli scatti. Io vendo il mio lavoro come fotografo, faccio una selezione delle migliori foto, tutte sistemate, e consegno quelle. Volendo possono farsi anche un fotolibro da soli su internet, ma se vogliono un mio libro le foto le seleziono io per raccontare una storia. Poi alcune volte ti chiedono di vedere un’anteprima del layout e magari di cacciare una foto se c’è proprio il parente che gli sta antipatico (capita), però tendenzialmente preferisco scegliere io.

Al chiuso sfrutti la luce naturale, magari alzando gli ISO, oppure vai sul “sicuro” con quella artificiale (in questo caso meglio flash o luce continua)?

Io uso tanto la luce ambiente e se necessario alzo gli ISO, anche a 6400, senza problemi. Porto i flash perché non posso permettermi di rischiare, però li adopero solo in caso di estrema necessità perché non mi piacciono molto i risultati. Li ho usati per anni bilanciando perfettamente luce di interno ed esterno, però viene una foto corretta ma non narrativa. Finché posso, da puro reporter, sfrutto l’ambiente, anche a costo di ottenere delle finestre tutte chiare per avere la luce giusta all’interno.

Un tempo vedevamo foto mosse, sfocate, rumorose e riuscivamo comunque a coglierne la poesia (quando c’era, ovviamente). Oggi va sempre più di moda l’esposizione perfetta e la nitidezza esasperata, anche per merito (o colpa) delle attrezzature moderne. Quanto è importante la tecnica e quanto il contenuto?

Più sale il livello di tecnica messa in atto nella realizzazione della foto, più scende il livello creativo e comunicativo della medesima. Questo per me è quello che avviene. Come una donna perfetta può piacere meno di quella bella che ha una piccola imperfezione. Insomma, non credo che la perfezione formale accompagni la creatività. Ho usato la tecnica per anni, ma alla fine me ne sono liberato ed invito tutti a farlo. Non voglio dire che chi non la conosce è un buon fotografo, perché è essenziale, ma non ci si deve basare su di questa sperando di ottenere un risultato artistico. Io ti ho citato grandi reporter e se vai a vedere gliene fregava poco se dietro era esposto bene o male, però guardiamo tutti le loro foto come punto di riferimento.

Era meglio quando fare foto era difficile e costoso oppure ritieni che la “democratizzazione della fotografia” sia un vantaggio dell’era moderna? Oggi il fotografo ha le stesse possibilità di emergere o è più difficile?

La fotografia è diventata comune, universale, facile. Oggi qualsiasi persona fa un corso di fotografia pensando subito di fare il fotografo. È chiaro però che, con meno selettività, nella massa trovi molti approcci semplicistici, elementari, banali. Non deve apparire un discorso antidemocratico, però un tempo si addiveniva alla professione del fotografo con un certo percorso formativo. Voleva dire aprire uno studio, investire cifre importanti nell’attrezzatura, rischiare in proprio, avere rapporti con collaboratori e fornitori. Oggi magari stai a casa dietro un computer, con un sito fatto gratuitamente su wordpress, compri una reflex da 500€, fai un matrimonio ad un amico, metti le foto su Facebook e speri che ti chiami qualcun’altro. Facile sì, e magari utile in tempo di crisi, però non si può pensare che tutto quello che c’era dietro un tempo non significasse qualcosa. Non voglio dire che i fotografi di oggi non siano capaci, non c’entra niente questo, però c’è un approccio più semplicistico alla professione dettato, giocoforza, dalle nuove tecnologie. Prima c’era la famosa frase: “le foto sono venute?” Oggi non si dice più. Manca il fattore rischio di impresa, che crea tensione e selezione. Non dico che io sia contrario, è solo un dato di fatto.

A proposito di questo, ti è mai capitato in un matrimonio di perdere un momento importante? Come l’entrata in chiesa o lo scambio degli anelli.

Il vero problema non è perderlo, ma non accorgersi di averlo perso. Può capitare un momento, magari più un tempo quando non potevi controllare la foto e avevi il dubbio se fosse venuta bene o se fosse scattato il flash, allora per sicurezza la rifacevi. Però noi scattiamo sempre in due, quindi è quasi impossibile che ci sia qualcosa che sfugga ad entrambi. Ci sono delle foto che sono irripetibili e personalmente non capisco quelli che lavorano da soli, secondo me con rischi professionali enormi. Ti faccio un esempio: in un matrimonio importante hai la sposa che entra in chiesa col padre e tu hai un problema. Lì non puoi dire “questa foto non c’è” e nemmeno “rifacciamola dopo”. Secondo me bisogna avere sempre un backup.

Di solito preferisci il bianco e nero, ma non disdegni neanche il colore. È la singola foto a suggerirti come essere sviluppata oppure segui una logica ben delineata a monte?

Dipende dalla singola foto. Per me il bianco e nero è più reportage, il colore è più formale. Quindi quando la foto è più narrativa la faccio in bianco e nero, altrimenti la vedo più a colori.

Un tempo si sviluppava in camera oscura, oggi lo facciamo con il computer. Grazie alla grande quantità di funzioni e la relativa semplicità offerta dai moderni software di post-produzione, è fin troppo facile alterare in modo massiccio lo scatto originale. C’è un limite che non bisognerebbe mai superare?

Io penso che nel digitale il limite è solo il buon gusto, ma se dovessi delineare un confine direi che non bisogna andare oltre a quello che si poteva fare con la fotografia tradizionale. Certe immagini che sanno di HDR secondo me sono inguardabili, però non dico che vadano bandite. Più delicato è il problema del fotoritocco per rendere belle le persone. Non ho particolari pregiudizi su questo, dopotutto si usa anche nella moda, però se vuoi essere trasformata in Grace Kelly io non lo faccio, anche perché dovrei chiamare uno specialista in fotoritocco. Sono abbastanza democratico e non mi sento di vietarlo, però vedo che molti fotografi rendono le spose delle bambole perfette. Non dico che sia sbagliato, ma io non saprei neanche farlo. Mi limito a cose più minimali come togliere un brufolo. Ripeto, non metto limiti, ma non bisogna dimenticarsi del buon gusto, perché in fotografia il rischio del kitsch è sempre dietro l’angolo.

Ti ho fatto molte domande riguardo ai matrimoni ma, guardando la tua attività editoriale, ho notato molte pubblicazioni di progetti personali o in collaborazione con altri fotografi. Vorrei sapere se con i matrimoni riesci a trovare la stessa soddisfazione che hai fotografando per te stesso.

In realtà quelle pubblicazioni sul territorio sono di qualche tempo fa, quando ero forse un po’ più “puro”, perché negli ultimi 12/13 anni si è intensificata molto l’attività nei matrimoni. Comunque anche questi tante volte mi regalano soddisfazioni. L’unica cosa è che bisogna sempre alzare l’asticella, affrontare nuove sfide. Ho bisogno di mettermi alla prova, riprovare anche un po’ di adrenalina. Il matrimonio, come dicevi prima tu, ha una certa componente di ripetitività, per cui trovo soddisfazione nelle situazioni insolite, come la location particolare, le cerimonie di indiani o ebrei. Qualsiasi cosa che rompa lo schema tradizionale.

C’è qualche progetto per il futuro che ti sta particolarmente a cuore?

Voglio portare avanti le attività che sono nate dopo la pubblicazione del mio libro Fotografie di matrimoni con Denis Curti, edito da Marsilio. Ho fatto una mostra a Milano presso Still Gallery insieme a Francesco Cito e lì sono state vendute delle fotografie di matrimonio stampate, firmate e a tiratura limitata, anche a prezzi buoni nel collezionismo. Penso sia un evento inedito per questo genere di fotografia e vorrei continuare a portarla nelle gallerie, dove di solito non arriva.

Un’ultima domanda: Mac o PC?

Mac da sempre, senza nemmeno sapere perché. È stato un incontro naturale, come posso dire. C’è un nostro carissimo amico guru di Photoshop, Gianluca Catzeddu, che quando passai al digitale mi consigliò Mac e non mi sono mai posto nessun’altra questione. Non so neanche com’è il PC, mi sono trovato sempre bene con Apple quindi perché cambiare?

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Ringrazio Carlo Carletti per avermi concesso la possibilità di fargli qualche domanda per il nostro sito e i lettori. Per seguire il suo lavoro vi consiglio di visitare il sito internet e la sua pagina facebook, oppure di acquistare uno dei suoi libri come il recente Carlo Carletti. Fotografie di matrimoni edito da Marsilio Editori.

Maurizio Natali

Titolare e caporedattore di SaggiaMente, è "in rete" da quando ancora non c'era, con un BBS nell'era dei dinosauri informatici. Nel 2009 ha creato questo sito nel tempo libero, ma ora richiede più tempo di quanto ne abbia da offrire. Profondo sostenitore delle giornate di 36 ore, influencer di sé stesso e guru nella pausa pranzo, da anni si abbronza solo con la luce del monitor. Fotografo e videografo per lavoro e passione.

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