La post produzione nell’era digitale ed il suo apporto nel processo creativo

Se siete fotografi professionisti, amatori evoluti o semplicemente appassionati, probabilmente vi sarete già imbattuti in domande simili e riconducibili al prototipo: “ma questa foto è ritoccata?”. Personalmente ho sempre cercato di liquidare la domanda con una risposta abbastanza concisa che pressappoco recita così: “certo che è ritoccata, anche se sarebbe più giusto dire sviluppata, dopotutto anche tu dovevi portare la tua Kodak usa e getta a sviluppare al supermercato, no?”. Di solito il discorso finisce qui, poiché non sempre l’interlocutore è in grado di cogliere il collegamento tra lo sviluppo del rullino e quello in digitale.

Cercherò di illustrare (con pensieri e opinioni) quella che considero la naturale evoluzione della camera oscura: la post produzione digitale (o camera chiara). Le similitudini tra lo sviluppo del rullino analogico e quello del file RAW digitale sono logiche, ma non proprio ovvie. Quando il negativo viene sviluppato, il fotografo può agire sul contrasto e sull’esposizione, trattando la pellicola per una sensibilità diversa da quella nominale. Soprattutto con pellicole da 400 ISO è possibile “tirare” l’esposizione anche di 2-3 stop ottenendo uno scatto ben esposto con una grana solo leggermente più visibile. Anche nella stampa chimica, dunque, il fotografo può esprimere la propria arte, utilizzare carte diverse o tagliare l’immagine (un esempio si trova nel lavoro di Mario Giacomelli).

Nel processo di sviluppo in camera chiara si hanno maggiori possibilità ma i principi di base sono i medesimi. Se avete utilizzato Photoshop probabilmente conoscete i comandi dodging e burning, questi derivano direttamente dall’esperienza della camera oscura e consistono nello schermare una porzione della carta fotografica che verrà impressa dalla luce proveniente dal negativo. Questa immagine di Wikipedia fornisce una buona sintesi della tecnica analogica:

dodge-burning

Il cono d’ombra creato riduce la quantità di luce che colpisce la carta ed aumenta la luminosità di quell’area (considerate che si tratta della fase negativo-positivo e quindi meno luce uguale più chiaro). Questa tecnica è utilizzata per gestire la luminosità delle diverse aree e consente di ottenere stampe con un’eccellente gamma dinamica. E quando si parla di ottimizzazione della gamma dinamica si parla del maestro Ansel Adams a cui si deve la teorizzazione del sistema zonale più utilizzato (soprattutto per la praticità) anche nell’era digitale (approfondimento: italiano / inglese).

Ansel-Adams-with-straight-and-fine-print-of-Moonrise

Ma anche non volendo utilizzare la post produzione, nell’era digitale è possibile farne a meno? No, non è possibile evitarla del tutto come non era possibile evitare lo sviluppo del negativo con le care vecchie (e sempre affascinanti) pellicole. Allora cosa possiamo fare? A questo punto un certo senso di sconforto è comprensibile, ma solo per un momento.

Abbiamo appurato che la post produzione esiste da quando esiste la fotografia sia come parte integrante del processo creativo (M. Giacomelli) che come compito da delegare a terzi (H. C. Bresson), un dubbio che potrebbe rimanere in sospeso riguarda lo scatto direttamente in JPEG “on camera”. Ed ecco un’altra affermazione che probabilmente dovrò leggere ed ascoltare per molto tempo ancora: “di sicuro le mie foto non sono ritoccate, scatto direttamente in JPEG!”.

Niente di più falso, ovviamente, perché anche in questo caso bisognerà sviluppare i dati grezzi (RAW), l’unica differenza è che lo si lascerà fare alla fotocamera, che interpreterà lo scatto in base ad algoritmi e formule matematiche. Difficilmente si potranno così ottenere risultati più accurati rispetto ad una regolazione manuale (prendiamo come esempio il bilanciamento del bianco). L’elaborazione (o sviluppo) in se è assolutamente normale, è fisiologica nello “scattare fotografie”. Anzi, aggiunge quella soggettività in più che contraddistingue il semplice scatto ricordo da una fotografia più ragionata e, per così dire, d’Autore.

La discussione si può intavolare riguardo ai limiti della Post Produzione ed all’effetto che il digitale ha avuto su questi. Anche in camera oscura era possibile eseguire il montaggio di due o più scatti con esposizioni diverse, oppure tirare di molto le ombre di una foto, eliminare elementi indesiderati con particolari pennelli, ecc.. anche se era indubbiamente più difficile che oggi. I software di Post Produzione hanno portato queste tecniche ad una diffusione capillare, fornendo strumenti molto potenti sia ai fotografi professionisti che agli amatori. Questa semplicità di “accesso” al ritocco non è però esente da controindicazioni: il limite del giusto è stato sicuramente varcato e non esiste più colore che possa ritenersi salvo dalle manie di saturazione. Naturalmente sto esagerando, ma non troppo a giudicare delle immagini che si vedono in giro. La questione oggi è riuscire a trovare la propria strada, una coerenza stilistica concretizzata con un numero adeguato di strumenti. Portare il proprio bagaglio di esperienze sempre a un livello superiore, alimentando il proprio spirito critico e chiedendosi se i risultati rispecchiano le sensazioni ricercate, uno stato d’animo o un’emozione. Se per raggiungere questo si dovrà passare da una Post Produzione “spinta”, pazienza, si è “giustificati” quando si ha uno specifico fine. Ma è necessaria la consapevolezza che sicuramente si troveranno persone a cui il proprio lavoro non piacerà. Preoccupatevi se i vostri lavori piacciono a tutti.

Alessio Andreani

Special Editor - Sono nato a Loreto, nelle Marche. La fotografia occupa gran parte del mio tempo, sia per lavoro che per passione, due aspetti che a volte coincidono. Vivo a Milano. Pagina Facebook

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