Il Copyright Royalty Board della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti (praticamente un organo molto simile alla nostra SIAE per taluni aspetti) ha innalzato le percentuali che i servizi di streaming musicale dovranno pagare agli artisti e ai loro produttori per il quinquennio 2018 - 2022, portandole dal 10,5% al 15,1%. Infatti, mentre i servizi di diffusione via internet di contenuti audiovisivi (come Netflix, Hulu, Amazon Prime Video...) sono liberi di contrattare con i titolari dei diritti d'autore i compensi da versare per ogni riproduzione, quelli che si occupano della diffusione di musica sono soggetti alle percentuali stabilite dal Board, visto che mentre i primi possono concordare quali contenuti trasmettere, i secondi sono soliti stringere accordi per gli interi cataloghi.
Dunque, Apple, Spotify, Google, Amazon, Pandora e gli altri devono prepararsi ad un maggior esborso rispetto agli anni passati: se, da un lato, gli artisti sono più tutelati (come non ricordare le battaglie di Taylor Swift, dei Beatles e degli AC/DC contro tali servizi?) e più stimolati a produrre nuovi contenuti (si spera di qualità), dall'altro vi è il pericolo che il costo del canone di abbonamento pagato dagli utenti possa salire per compensare i maggiori costi sostenuti dalle società. Sino ad ora l'iniziativa è stata applaudita solo da David Israelite, Presidente della National Music Publishers' Association, che ha evidenziato come le nuove percentuali siano le più favorevoli accordate sinora nella storia dell'industria musicale.