I nostri dati sono ancora riservati? Facebook li avrebbe ceduti ad oltre 150 aziende

Fino a qualche anno fa potevo accettarlo. Se qualcuno mi avesse detto di non sapere che le grandi compagnie di Internet basano gran parte del loro business e delle strategie di marketing sui dati personali degli utenti, non mi sarei stupito più di tanto. Nel 2018, però, la questione è venuta a galla più e più volte ed è stata trattata ripetutamente anche dai media generalisti. Per questo rimango stupefatto nel vedere così tante persone che temono di pagare online con la loro carta di credito ma allo stesso tempo rispondono senza riserva alcuna quando un sito qualsiasi gli chiede nome, cognome, età, città di residenza, stato sociale, bevanda preferita, numero di scarpe, ecc..

Un tempo si temeva di più per le falle di sicurezza. Quelle che potevano consentire al malintenzionato di turno (privato, azienda o nazione) di trafugare i dati riservati archiviati nei server delle compagnie. Questo rischio c’è sempre stato, ma oggi è palese che siano esse stesse a fornirli a terzi per un tornaconto economico. In cima alla lista delle bad company si trova Facebook, che dopo l’interrogazione del Congresso USA a Zuckerberg relativamente al caso Cambridge Analitica, non accenna a dimostrare maggiore attenzione verso i propri utenti.

Abbiamo già parlato dei 50 milioni di account compromessi, ma il report del New York Times dipinge uno scenario ancor più raccapricciante. Secondo i documenti ricevuti dalla storica testata statunitense, Facebook avrebbe offerto accesso ai dati riservati degli utenti ad oltre 150 aziende tra il 2010 ed il 2017, ma alcuni di questi “contratti” sono ancora attivi nel 2018.

Si tratta per lo più di realtà appartenenti alla sfera tech, ma ne hanno beneficiato pure catene di commercio, piattaforme di intrattenimento, produttori di auto e aziende di comunicazione. Ad esempio il motore di ricerca Bing ha potuto conoscere i nomi di tutti gli amici degli utenti Facebook senza il loro consenso, mentre a Netflix e Spotify è stata data addirittura la possibilità di leggere i messaggi privati. Non sono escluse Amazon, che ha visto i nomi e le informazioni personali di tutti gli amici, e Yahoo, che ancora questa estate poteva accedere allo stream con i post recenti dei contatti Facebook. La situazione qui descritta è solo parziale ma è stata comunque confermata da oltre 50 ex-dipendenti di Zuckerberg.

Non so davvero se sia necessario aggiungere altro. Personalmente non chiudo l’account Facebook solo perché ci sono le pagine di SaggiaMente che mi interessa (per ora) mantenere attive, ma già da tempo evito ad esempio di aggiornare la pagina relativa al mio lavoro di videomaker perché non mi va di rendere pubbliche le informazioni dei clienti. Trovo davvero centrata la domanda che Guy Verhofstadt, ex primo ministro del Belgio, ha posto al creatore del social network più potente del mondo:

Dovrebbe chiedersi (Mark Zuckerberg) come vorrebbe essere ricordato. Come uno dei tre giganti di Internet, assieme a Steve Jobs e Bill Gates, che hanno arricchito il mondo e le nostre società, oppure come il genio che ha creato un mostro digitale che sta distruggendo le nostre democrazie e le nostre società.

Certo si potrebbe dissentire sui singoli nomi presi ad esempio o sulla mancanza degli inventori di Google, ma il punto credo sia chiarissimo ed esposto con la giusta dose di sdegno. Ma Facebook oggi vuol dire anche Whatsapp e Instagram, piattaforme diffusissime e che stanno vivendo un momento particolarmente florido – specialmente la seconda. La prima, invece, l’ho sempre evitata come la peste, anche prima che il suo cuore si tingesse di Blu. Probabilmente su Instagram c’è comunque meno possibilità di fornire informazioni personali, perché non ci sono tutti quei finti questionari realizzati ad hoc per trafugarle e non c’è un mostro pericolosissimo come il Facebook Login. Non sono una persona con troppe paranoie, capisco che i servizi gratuiti debbano in qualche modo battere cassa e quando ne vale la pena li uso comunque, pur sapendo che ciò che condivido con loro ha automaticamente perso lo status di privato, ma non si può permettere che quelle informazioni viaggino poi liberamente a terze parti senza nostra approvazione e men che meno quelle delle persone che hanno semplicemente avuto la sfortuna di essere nostre “amiche”.

Una medicina per questa condizione non esiste ancora, perché sebbene in teoria si potrebbe richiedere agli utenti di pagare per tutale la loro privacy, i pochi esperimenti basati su questo modello di business sono falliti (ero iscritto ad app.net, ad esempio). Probabilmente la cosa si dovrà chiarire univocamente anche dal punto di vista morale, governi e legislatori dovranno essere molto più duri nel formulare ed applicare la legge, ma “questi qui” hanno paura solo di perdere soldi e potere. Per assurdo, dunque, dovranno essere prima di tutto i loro compagni di merenda a darli per spacciati e segarli pesantemente in borsa. Chissà che allora non arriveranno delle scuse finalmente sentite (non la cantilena “I am sorry” che abbiamo sentito al Congresso) ed un netto cambio di politica, strategia e dirigenza.

Maurizio Natali

Titolare e caporedattore di SaggiaMente, è "in rete" da quando ancora non c'era, con un BBS nell'era dei dinosauri informatici. Nel 2009 ha creato questo sito nel tempo libero, ma ora richiede più tempo di quanto ne abbia da offrire. Profondo sostenitore delle giornate di 36 ore, influencer di sé stesso e guru nella pausa pranzo, da anni si abbronza solo con la luce del monitor. Fotografo e videografo per lavoro e passione.

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