ARMiamoci e partiamo: considerazioni sull’imminente transizione dei Mac

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Attesa o temuta, la transizione dei Mac da Intel ad ARM non è una questione di se, ma di quando. E se Gurman ci avrà preso anche stavolta, fra meno di due settimane Apple darà il via ufficiale alle danze. Un’operazione che però presenta tante incognite, non essendo una passeggiata il cambio di architettura di CPU, e da Cupertino dovranno arrivare parecchie rassicurazioni, sia per gli utenti che per gli sviluppatori, che la scelta sia quella giusta. Proviamo ad approfondire insieme le diverse incognite correlate a questo switch.

Il momento giusto (si spera)

Apple non si presenta impreparata a questo appuntamento con la storia. I Mac hanno adottato più tipologie di processori, nella loro strada. Negli anni ’80, e per la prima parte dei ’90, dominò l’utilizzo dei Motorola 680×0, che per le esigenze della mela si rivelarono più congeniali, nonché un importante elemento distintivo, rispetto le unità centrali a marchio Intel o x86 compatibili adottate dal mondo PC/Microsoft (includendo così MS-DOS e Windows). Il 2 ottobre del 1991 iniziò la prima transizione, con la costituzione della AIM Alliance tra Apple, IBM e Motorola, una joint venture che aveva tanti obiettivi, a partire dall’allora nuova architettura PowerPC. In realtà fu proprio l’unico obiettivo centrato, mentre gli altri fallirono e Motorola si ritirò dopo qualche tempo; tutt’oggi vengono prodotti chip basati su tale architettura, anche si è intanto evoluta in Power ISA e i prodotti non sono più utilizzati per scopi “casalinghi”.

Ma torniamo al discorso principale: quella transizione non fu rapida, tutt’altro. Si partiva quasi da zero e il primo processore disponibile commercialmente, il PowerPC 601, arrivò dapprima nel 1993 nei server IBM e solo il 14 marzo 1994 nei computer Apple, col primo Power Macintosh (la cui gamma si sarebbe poi evoluta in PowerMac ed è progenitrice, almeno a livello di posizionamento tecnico, dei Mac Pro). Anche a livello software la transizione si protrasse per molto tempo: fu solo da Mac OS 8.5, rilasciato il 17 ottobre 1998, che venne tagliato il supporto ai Mac dotati di processori Motorola 680×0. Un sodalizio che ha funzionato per diverso tempo, coi PowerPC che battevano costantemente per potenza i processori Intel, anche a frequenze operative inferiori. L’architettura ebbe numerosi aggiornamenti, arrivando ai 64-bit nel 2003 col G5 e al dual-core nel 2005.

Il G5 non fu utilizzato solo da Apple, ma anche da chi meno ci si sarebbe aspettati. Certo, non nella sua forma originale: la CPU Xenon che Microsoft utilizzò nella Xbox 360 beneficiò di diversi cambiamenti, apportati da IBM in base a quanto venne richiesto da Redmond. Ma le istruzioni alla base erano sempre PowerPC, e i primissimi prototipi di Xbox 360 non furono niente meno che PowerMac con lievi modifiche ed un sistema operativo personalizzato! Lo Xenon, a sua volta, aveva parecchie similitudini col Cell adottato da Sony nella PlayStation 3.

La Xbox 360 montava un processore PowerPC

Quel periodo fu, insomma, il picco dell’architettura PowerPC. E anche l’inizio del suo declino. Perché, mentre le console li adottavano, IBM stava perdendo il suo cliente principale: alla WWDC 2005, Apple annunciò il suo passaggio ad Intel, che entrò nel vivo l’anno successivo e si concluse di fatto definitivamente nel 2009 quando Snow Leopard supportò solamente x86 (a voler essere più puntigliosi, possiamo arrivare a giugno 2012 con la versione 10.6.3 di iTunes, l’ultima disponibile anche per PowerPC).

I motivi per cui Apple decise di cambiare furono molteplici. Il gap di prestazioni tra x86 e PowerPC si era drasticamente ridotto se non colmato e, almeno per quanto riguardava i computer, IBM non sembrava più riuscire ad evolvere la sua creatura in modo soddisfacente. I 3 GHz rimasero una chimera, così come il G5 nei PowerBook, che dovettero rimanere col più anziano G4 in quanto i più nuovi avevano consumi inaccettabili e richiedevano una dissipazione molto gravosa per un portatile. In generale quanto stava realizzando Intel era molto più promettente per il futuro dei Mac, con micro-architetture ottimizzate per il multi-core, più prestanti e meno esose di energia. La cosa suona piuttosto familiare ai giorni nostri, ma i protagonisti sono cambiati.

Oggi è ARM ad essere in vantaggio nelle Performance per Watt

ARM ha una lunga storia alle sue spalle, ma è solo nella seconda metà della prima decade del 2000 che iniziò a spingere sull’acceleratore. Proprio come ai tempi l’indice delle performance per watt favoriva x86 nei confronti di PowerPC, oggi esso favorisce ARM. Va detto che la casa anglo-giapponese non è concorrente d’Intel in sé sul piano commerciale, ma solo su quello tecnico: ARM fornisce un set d’istruzioni base, lasciando poi la scelta ai licenziatari se usufruire solo di quelle oppure implementare un pacchetto “chiavi in mano” con le micro-architetture Cortex. Apple ha scelto la prima strada, frutto dell’acquisizione di PA Semi nel 2008 che ha portato due anni dopo all’introduzione della serie di SoC Ax (A4 e A5, tuttavia, furono basati sui Cortex, fu A6 nel 2012 ad introdurre la prima micro-architettura completamente sviluppata da Apple). I risultati le hanno dato ragione, dal momento che Qualcomm e le altre non riescono ancora a raggiungere le prestazioni degli Ax. Solo dal 2021 con gli ARM Cortex-X potrebbe iniziare a cambiare qualcosa, almeno sulla carta, poi, tutto sorride ad Apple. Nella recensione dell’iPhone SE pubblicata da John Gruber su Daring Fireball, l’A13 batte nei test single-core su Geekbench l’i9 del MacBook Pro 16″. In multi-core invece l’iPad Pro 2020 riesce a farsi beffe dell’i5 degli ultimi MacBook Air e pesta i piedi persino agli i5 dei Pro 13″ a più alto TDP.

Sia ben chiaro: è tutto ancora da verificare sul campo. Per quanto parecchio imparentati dietro le quinte, iOS non è proprio uguale a macOS: ha framework diversi, una gestione differente del multitasking e della memoria, che sul fratello maggiore desktop sono pensati per gestire applicazioni molto più complesse. Calma ad esultare, dunque, e aspettiamo l’esperienza pratica, non solo i numeri dei benchmark. Stando a quanto riporta Gurman, i prototipi di Mac dotati di SoC Ax, che probabilmente saranno versioni ancor più potenziate di quelle in uso negli iPad Pro, hanno mostrato prestazioni superiori alle controparti Intel in vari ambiti, incluso quello grafico. Le premesse sembrano essere buone.

Ma non ci si può aspettare niente di meno. ARM offre la possibilità ad Apple di stabilire anche su Mac la propria narrativa in tutto e per tutto, nel bene e nel male. Specialmente sui laptop, dove il lento pede di Intel ha causato non pochi problemi, costringendo la mela a ritmi di aggiornamenti incostanti, magari nemmeno ottenendo grandissime migliorie alla fin della fiera. Il solo processo produttivo delle CPU Intel, ancora a cavallo tra i 14 e i 10 nanometri, costituisce un punto di svantaggio, mentre AMD, ma anche la stessa Apple sugli iDevice, usufruiscono felicemente dei 7 nm di TSMC e galoppano di buona lena verso i 5. Ciò ha inoltre vantaggi sul fronte della dissipazione, visto che le soluzioni ARM scaldano meno e vanno incontro alla nota repulsione cupertiniana per le ventole. Per non parlare dell’aspetto economico di poter fare tutto in proprio e negoziare accordi coi fornitori.

Prima di chiudere questo paragrafo c’è da porsi un’ultima domanda: perché non affidarsi ad AMD? Si tratta sempre di x86 e i Ryzen stanno dimostrando ottime performance, che farebbero parecchio comodo almeno alla gamma desktop. Ci riflettemmo su a febbraio, sulla base di alcuni rumor, rivelatisi infine infondati. Gli elementi a supporto di questa possibile collaborazione c’erano, tanto quanto ci sono quelli a sfavore. O meglio, quello, perché è in sostanza uno, già spiegato sopra. Apple vuole scrivere da sé tutte le regole del gioco visti i riscontri positivi in ambito mobile, mentre un passaggio ad AMD sarebbe solo un’altra tappa su un percorso parallelo.

La doppia vita

Torniamo ora al giugno del 2005, alla fatidica WWDC in cui la frase “It’s true” – con la “e” ribassata come nel logo Intel – comparve durante il keynote di Jobs. In quell’occasione, venne rivelato che Mac OS X ebbe una doppia vita nei laboratori di One Infinite Loop: accanto alla versione commerciale PowerPC, ne venne sviluppata costantemente anche una in grado di essere eseguita su processori Intel. Tenuta lì giusto “nel caso”, come Jobs al tempo motivò. E il caso alla fine arrivò, con la nota transizione di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Per la verità, si trattò di una situazione antecedente persino alla 10.0: NeXTSTEP/OPENSTEP (da cui Mac OS X deriva) era già compilato per x86 e qualche tempo dopo l’incorporazione di NeXT in Apple, col ritorno del figliol prodigo Steve, il progetto Rhapsody (che di fatto era poco più che OPENSTEP dotato dell’interfaccia di Mac OS) mosse i suoi primi passi proprio in doppia piattaforma, PowerPC ed Intel.

Sicuramente pure stavolta è andata così: macOS ha avuto in questi anni una doppia vita, forse già dai tempi di Lion se non anche prima (in fondo, proprio nello stesso periodo Microsoft stava portando Windows su ARM), molto probabilmente almeno da Yosemite. Apple ha certamente avuto non solo tempo e possibilità per migliorare i suoi SoC, ma anche lo stesso porting, ottimizzando sempre più macOS per l’esecuzione sugli AX ed individuando i potenziali punti critici. E se, come detto da Gurman, i primi Mac commerciali con ARM non arriveranno prima del 2021, ipotizziamo in periodo WWDC o autunnale, c’è ancora almeno un altro anno per affinare il tutto, beneficiando del feedback esterno. Di questo ne riparleremo però più avanti.

Col catalizzatore

Qui entra in gioco senz’altro uno degli accorgimenti di cui Apple ci ha già messo a conoscenza: Catalyst. Il progetto per portare app da iPad a macOS verrà senz’altro facilitato dalla comunanza di architettura per i processori, avvicinando maggiormente allo scenario “one click” su Xcode promesso da Cook e soci (in realtà resterà impossibile arrivare ad un singolo click per avere un’app proveniente da iOS in tutto e per tutto a suo agio su Mac, occorrendo comunque degli adattamenti). Ciò potrà permettere anche una maggiore condivisione dei vari “kit” tra i due sistemi a beneficio di ambo le parti, purché si eviti una parziale concorrenza interna, che discuteremo successivamente.

È chiaro però che Catalyst non può essere la soluzione completa per questo switch, perlomeno nel breve termine. Molte applicazioni native di macOS non si accontentano di quanto offre il porting rapido e hanno una maggiore complessità di sviluppo, che segue di pari passo quella funzionale. API come Cocoa rimarranno dunque fondamentali anche sui Mac con ARM, aprendo la strada ad un grande ritorno: Universal Binary. Venne introdotto nel 2005, per realizzare un singolo eseguibile in grado di girare sia sugli allora nuovi Mac Intel sia su quelli PowerPC. Con la cessazione del supporto software alla vecchia piattaforma, l’utilizzo degli Universal Binary non ha più avuto scopo, se non in rari casi. Si tratta però di un bagaglio d’esperienza di cui Apple farà con ogni probabilità tesoro anche dal prossimo 22 giugno, presumiamo con ulteriori accorgimenti al fine di non incrementare troppo le dimensioni delle app. In questo senso, è probabile che almeno per le applicazioni provenienti dall’App Store si ricorrerà ai metodi di App Thinning già introdotti da tempo su iOS, con l’app parzialmente compilata dallo sviluppatore caricata sullo Store e il resto fatto da Apple in modo trasparente durante lo scaricamento e l’installazione, basato sul modello di Mac in uso.

Le app Universal Binary contenevano doppio codice: PowerPC e Intel

Rimarrà comunque un potenziale scoglio di fondo, ossia avere gli sviluppatori dalla propria parte. Non parlo tanto di quelli piccoli e indipendenti, che probabilmente saranno tra i primi ad approcciarsi alla transizione, seppur non impazzendo di gioia all’idea di nuovo hardware da acquistare per i test e alla necessità di mantenere per un lungo periodo le app compilate sia per ARM che x86. Le rogne saranno con gli sviluppatori principali: sono quelli coi software più complessi e ben più recalcitranti degli indie ad investire tempo e risorse per il cambiamento. Lo si è già visto da PowerPC ad Intel, quando soprattutto Adobe si prese dei tempi molto lunghi per realizzare una versione x86 nativa della Creative Suite, e se il buongiorno si vede dal mattino sarà lo stesso anche stavolta, citofonare Microsoft.

Priorità nel porting dovranno averla i giochi, non certo essenziali in termini produttivi ma fondamentali per completare praticamente qualsiasi piattaforma dall’alba dei tempi. Nessun problema per quelli su Apple Arcade, disponibili anche su iPad, ma per tutti gli altri, specie i titoli più impegnativi su piattaforme come Steam, sarà imperativo uno sviluppo mirato ad ottimizzare le performance, poiché in emulazione i risultati saranno quasi sicuramente inadeguati al game play. Ciò aprirebbe anche una riflessione sulla possibilità che Apple colga l’occasione per limitare l’installazione delle app sui Mac con ARM al solo App Store. Personalmente ritengo che non sarà così, anche per mantenere una necessaria distinzione funzionale rispetto ad iOS. Ci saranno Gatekeeper, SIP e compagnia, così come adesso, ma non un blocco totale alle installazioni fuori dallo Store.

Si potrebbe nuovamente ricorrere a Rosetta, ché non stupirebbe se fosse già in uso nelle build interne di macOS su ARM, quantomeno per vedere se l’emulazione può svolgere un buon ruolo di tampone nel primo periodo. È indubbio che tale ambito abbia fatto nel tempo dei passi importanti, ma giocare a fingersi un’altra architettura resta sempre un compito impegnativo per l’hardware. L’emulatore x86 integrato in Windows 10 per ARM se la cava solo con le app a 32-bit ed offre prestazioni magre per contesti impegnativi, come appunto sarebbe nel caso di Photoshop e simili. Forse Apple sta ottenendo ed otterrà risultati migliori, ma è meglio confidare nell’arrivo di app native piuttosto che nel miracolo di Rosetta.

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Il kit di benvenuto (agli sviluppatori)

Abbiamo parlato sopra del software, ora parliamo dell’hardware. Annunciando la transizione nel 2020 ed iniziando la fase commerciale nel 2021, si dà un anno di tempo agli sviluppatori per prepararsi. Ma ci vuole un dispositivo su cui farlo, perché di Mac con ARM non ce ne sono in giro ed un emulatore all’inverso, da ARM ad x86, non darebbe alcuna possibilità di valutare adeguatamente le prestazioni delle app. È lo stesso problema che si pose già nel 2005 e che Apple risolse col Developer Transition Kit, offerto a $999 in noleggio per 18 mesi. Non era altro che un PC con un processore Intel Pentium 4, con Mac OS X Tiger preinstallato, inserito all’interno di un case PowerMac G5 (che poi sarà effettivamente riutilizzato per i Mac Pro fino al 2013). Potremmo definirlo una sorta di hackintosh ante litteram fatto direttamente da Apple, con lo scopo limitato allo stretto necessario per quel periodo. In fin dei conti, si aspettavano che tutte le unità venissero restituite, proprio perché non inteso per l’utilizzo quotidiano.

Può darsi che si arrivi nuovamente ad un DTK simile? Considerando l’attuale Mac Pro dubito che possa essere la macchina ideale per inserirci una scheda logica dotata di un SoC Apple. Sarebbe molto costoso, anche a proporlo in noleggio come 15 anni fa, e trasmetterebbe un messaggio implicito del tipo “anche il Mac Pro passerà ad ARM” che è realisticamente prematuro. Quasi sicuramente avverrà, ma in tempi diversi, quando i numeri e il software lo consentiranno. Più plausibile che il kit di transizione si baserà sui portatili e a tal proposito possono esserci tre opzioni all’orizzonte.

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La prima è il riutilizzo del case del MacBook 12″. Se n’è parlato a più riprese come possibile candidato ideale per iniziare l’addio ad Intel e in effetti ha molte carte in regola. Semplice, relativamente economico e nato già senza ventilazione attiva. Ma non sarebbe un prodotto completo: non avrebbe la Touch Bar (se non è presente sugli Air, perché pensare lo facciano su un modello che dovrebbe essere inferiore?) né la Thunderbolt (che gli Air invece hanno, ma non aveva il 12″), il che tanto varrebbe perseguire la terza opzione di cui a breve parleremo. Più verosimile una strada che passi per qualcosa ricalcante un MacBook Pro da 13″ o, perché no, 14″. Avrebbe tutti i componenti principali, inclusa Touch Bar e Thunderbolt, offrendo la possibilità di provare macOS per ARM su un prodotto già tecnicamente completo. Pensando di nuovo ad una disponibilità per 18 mesi a $999, non è uno scenario affatto peregrino. La terza opzione sarebbe invece una versione speciale di iPad Pro con Magic Keyboard, dotato di macOS invece che iOS, con supporto touch disabilitato sullo schermo. Sarebbe la via più rapida per Apple, ma avrebbe gli stessi svantaggi del MacBook da 12″, con in più la presenza del Face ID (di cui i Mac non fanno attualmente uso) e l’assenza del Touch ID.

Potrebbe infine esserci una quarta possibilità, fuori quota. Una variante modificata del Mac mini, o ancor meglio della Apple TV, con SoC recente, ampio spazio d’archiviazione e due porte USB-C/Thunderbolt, una al posto della HDMI e l’altra al posto di quella Ethernet o anche in coabitazione (in fondo, è già così sul modello HD, mentre su quello 4K la porta USB-C “di servizio” è stata rimossa). Il collegamento a tastiera e mouse o trackpad verrebbe affidato al Bluetooth. Dal momento che circolano da parecchio rumor su una nuova Apple TV, potrebbe essere l’occasione per cogliere due piccioni con una fava. Unirebbe i vantaggi dell’opzione 1 con quelli della 2, fatta eccezione per Touch Bar e Touch ID, a meno che Apple non rilasci una nuova Magic Keyboard desktop comprensiva di tali accessori. Lo svantaggio sarebbe però l’impossibilità di valutare l’impatto energetico, dato che ci si troverebbe davanti ad un piccolo computer desktop. In tal caso, Apple potrebbe decidere d’imporre una sorta di buona fede agli sviluppatori basata sulle ottime credenziali di ARM nell’ambito oppure proporre due distinti DTK, uno fisso e l’altro portatile, anche a prezzi diversi in modo da coprire più fasce.

Con o senza finestre

Veniamo ora ad un altro aspetto: Windows. Sappiamo ormai da parecchio che il sistema operativo Microsoft gira su ARM in forma completa, dimenticandosi delle antiche limitazioni di RT che ne decretarono il sonoro insuccesso. Uno dei vantaggi che la transizione da PowerPC ad Intel ha portato sui Mac è stata la possibilità di usufruire di Windows in forma nativa, attraverso Boot Camp, coabitando con macOS. La lenta emulazione tramite Virtual PC e similari era diventata un ricordo, mentre oggi anche la virtualizzazione è quasi un gioco da ragazzi visto il supporto hardware nei processori. Col passaggio ad ARM, però, cambiano tutte le carte in tavola.

Finché si utilizzano processori AMD o Intel, un sistema operativo o un’app può girare praticamente ovunque. Possono esserci alcune ottimizzazioni specifiche, delle istruzioni particolari presenti in una CPU piuttosto che nell’altra, ma nel 99% dei casi se si decide di cambiare CPU da Intel Core a Ryzen (o viceversa) non si avrà alcun inconveniente di compatibilità. L’unico scenario impattante riguarda il tentativo di usare programmi o sistemi operativi a 64-bit su processori a soli 32-bit, ma ormai si tratta di pochi residuati bellici risalenti alla scorsa decade. Nel caso di ARM, la questione non è così immediata: le differenze tra i set d’istruzioni utilizzati, ma anche tra le micro-architetture, possono essere tali da impedire l’esecuzione di un software tra diversi SoC. Ciò che gira su uno smartphone dotato di Qualcomm non è detto lo faccia su uno con chip Samsung, e vale anche all’opposto. Windows per ARM dovrebbe quindi dotarsi del supporto specifico ai SoC Apple, non basterebbe tentare la fortuna con un’immagine d’installazione (almeno per i comuni mortali; i più smaliziati potrebbero trovare il modo, ma al prezzo di parecchi adattamenti e molto tempo da impiegare). E qui è un ballo di coppia: Microsoft ed Apple. La prima potrebbe essere interessata ad impegnarsi nel supporto, perché no; la seconda un po’ meno. Che motivi avrebbe di dare ancora spazio ad un sistema rivale? Non molti sul piano egoistico, si tratta per lo più di offrire un’opzione utile agli utenti.

Boot Camp potrebbe non essere una priorità in fase iniziale

Si aprirebbe eventualmente la porta alla strada della virtualizzazione. Anche i SoC ARM possono prevedere delle tecniche hardware per la gestione delle macchine virtuali e Apple sembra si stia attrezzando in merito. Bisogna tuttavia essere specifici quando si parla di virtualizzazione ed emulazione: possono essere collegate, ma la seconda ha concetti più profondi, che possono spingersi appunto al permettere di utilizzare software compilati per un’architettura di CPU su un’altra totalmente diversa. Virtualizzare Windows per ARM su macOS per ARM potrebbe essere la via più semplice e plausibile, in un mondo dove ogni applicazione per il sistema Microsoft è compilata sia per x86 sia per ARM. Virtualizzare Windows per ARM per emulare applicazioni Windows x86, o peggio ancora emulare lo stesso Windows per Intel su macOS per ARM come invece si potrebbe dover fare, meglio proprio di no. Avrebbe un prezzo altissimo da pagare in termini di prestazioni.

Più che altro, ci si può chiedere se Windows sia così necessario sui Mac con ARM. Riflettiamoci un attimo: nella maggioranza dei compiti tipici da ufficio, nonché in alcuni ambiti produttivi, l’ecosistema macOS prevede le stesse app con analoghe potenzialità. Per i contesti più semplici, le web app hanno addirittura annullato l’esigenza di uno specifico sistema operativo, spostando più l’attenzione sul browser (chiedere ai Chromebook). Ci sono ambiti in cui la problematica si sentirà maggiormente, è fuor di dubbio, ma non sono così tanti. Per gli impieghi professionali CAD o anche per il gaming, la probabilità che si abbia un computer Windows dedicato è piuttosto elevata. Perciò, è davvero così necessario riconfermare Boot Camp su ARM? Forse sì, forse no. Di certo non una priorità per Apple in fase iniziale ma potenzialmente realizzabile sulla base di Windows 10 ARM con il supporto di Microsoft.

Scontro frontale

Avvicinandoci verso la conclusione di questo lungo excursus, andiamo a parlare di un potenziale scontro fratricida: quello tra MacBook e iPad. Nello specifico, tra MacBook Air (o il 12″, se davvero ritornerà) e gli iPad Pro con Magic Keyboard, che abbiamo già affrontato più nel dettaglio qualche settimana fa. Col passaggio ad ARM avranno moltissimo hardware in comune e, al netto di qualche porta in più o in meno, sarà il sistema operativo il vero fattore di differenziazione. Apple dovrà trovare il modo di far evolvere iPadOS e il suo parco app senza che danneggi macOS (alcune idee sono state buttate giù qui, magari da spalmare nel tempo proprio per proteggere il sistema maggiore), nonché effettuare accorgimenti sul fronte prezzi, facendo sì che fasce economiche ed utenze dei prodotti non si mescolino, se non incidentalmente.

No ad Intel, sì alla Thunderbolt

Questo è forse il punto che desta meno interrogativi di tutti. Non è necessario, infatti, abbandonare la Thunderbolt insieme ad Intel e ne parlammo già analizzando il fantomatico switch ad AMD. Dal 2018 Intel aveva rinunciato ad applicare le royalties e lo scorso anno aveva compiuto un ulteriore passo cedendo di fatto la specifica Thunderbolt 3 all’ente USB-IF in modo da utilizzarla come base per lo standard USB 4.0 (pur non rinunciando completamente ad estensioni proprietarie, che dovrebbero confluire nella Thunderbolt 4). L’unico requisito del colosso di Santa Clara è l’ottenimento di una certificazione “one-time fee” per l’utilizzo del marchio Thunderbolt, già ottenuto da diverse schede madri per Ryzen. In ogni caso, considerato come Apple sia cofondatrice dell’interfaccia (al punto da averne detenuto persino il brand per un breve periodo), sarebbero pressoché impossibili ostacoli sul suo utilizzo all’interno di Mac dotati di Ax.

Convivenza e futuro

Coesisteranno Mac ARM ed Intel nella gamma? Quando ci fu la transizione da PowerPC, le tempistiche furono ben più strette di quelle pronosticate da Jobs: dal primo Mac Intel di gennaio 2006 si arrivò ad agosto che non vi era più nessun modello con G4 o G5 ancora in vendita. Le linee furono soggette ad una sostituzione diretta, senza una permanenza di configurazioni PowerPC accanto a quelle x86. Con ARM potrebbe avvenire lo stesso, ma è impensabile che in pochi mesi sparisca qualsiasi traccia di Intel dalla famiglia Mac. Se su alcuni modelli come il MacBook Air e il Mac mini sembra piuttosto facile, sarebbe un grosso rischio affrettare lo switch per gli iMac e i modelli Pro. Le prestazioni degli Ax si stanno avvicinando a quelle dei Core per laptop di fascia alta, ma non ci sono ancora arrivate, soprattutto in multi-core. Certo l’hardware in arrivo non possiamo conoscerlo, ma pensare che da domani un A14 possa gettare via un i9 sarebbe folle. Discorso ancor più marcato per i desktop, dove la differenza è più elevata. Perciò questa volta potrebbero rimanere intere linee di Mac più costosi con Intel per qualche anno, prima del completo switch su ARM.

Anche sul fronte delle GPU si può stare abbastanza tranquilli, almeno per qualche tempo. Vale pure qui lo stesso discorso di poco fa: finché si tratta di competere coi chip grafici integrati di Intel non ci sono grossi problemi. Se Apple parlò di prestazioni simili alla Xbox One S per la GPU dell’A12X, già un risultato di tutto rispetto, ci si può aspettare che la componente grafica di un A14X si avvicinerà a quella di Xbox One X, aprendo ad ipotesi di benservito alle AMD Radeon Pro, almeno sui MacBook Pro. Ma nel frattempo che inizieranno ad arrivare i primi Mac con ARM ci sarà una nuova generazione di GPU dedicate decisamente più potenti, soprattutto per i modelli desktop. Motivi che, a meno di un miracolo ingegneristico da parte di Apple, fanno pensare che, a prescindere da che processore utilizzeranno, ci saranno Mac che continueranno ad offrire un chip grafico dedicato di terze parti per diverso tempo.

Ipotizziamo ora lo scenario meno probabile ma in ogni caso non impossibile, visto il già citato precedente dei PowerPC: tutti i Mac Intel escono di scena tra la fine del 2021 e metà del 2022. Per quanto tempo verranno supportati a livello software? Il benservito per i modelli all’epoca più recenti di Mac con G4 e G5 arrivò tra i 3 e i 4 anni, negando loro Snow Leopard. Con gli aggiornamenti annuali abbiamo però visto che Apple ha allungato il ciclo vitale dei suoi computer e ognuno che ha preso un modello di fresco rilascio può aspettarsi almeno 5-6 release di macOS. Verosimilmente sarà lo stesso anche per gli ultimi Mac dotati di CPU Intel, arrivando almeno a toccare la versione 10.22 prima di paventare la cessazione del supporto. Questo al netto di strategie commerciali di Apple per accelerare la transizione, che non sono purtroppo da escludersi. Anche perché saranno gli sviluppatori forse ad un certo punto a chiederla, non volendo più mantenere un costoso e stressante doppio supporto per le loro app.

Alan Key disse che coloro che vogliono seriamente fare software dovrebbero occuparsi anche dell’hardware, una frase che divenne un mantra per Steve Jobs. Per i Mac Apple l’ha sempre fatto in larga parte e stanno per iniziare i preparativi per completare il progetto con il tassello mancante. I presupposti ci sono ma con essi anche diverse incognite. Manovre simili comportano sempre dei rischi e non resta che sperare che tutto vada per il verso giusto.

Giovanni "il Razziatore"

Deputy - Ho a che fare con i computer da quando avevo 7 anni. Uso quotidianamente OS X dal 2011, ma non ho abbandonato Windows. Su mobile Android come principale e iOS su iPad. Scrivo su quasi tutto ciò che riguarda la tecnologia.