Mac con Apple Silicon: quanto costeranno agli utenti?

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Era l’argomento dei rumor prima della WWDC, è stato l’argomento della settimana durante la WWDC e sarà l’argomento dei prossimi mesi dopo la WWDC. I Mac con Apple Silicon non mancheranno di suscitare interessanti discussioni tecniche e commerciali. Delle prime ci siamo già occupati a più riprese, parlando dei rischi e vantaggi nonché della questione Windows e Boot Camp. Viene però inevitabile pensare anche a quanto impatterà sui nostri portafogli, sebbene bisognerà ancora attendere alcuni mesi per capirlo con l’introduzione del primo Mac “siliconato”. Proviamo intanto a ragionare su come potrebbe agire Apple in tal senso.

Risparmio sì, risparmio no

Una delle maggiori aspettative è proprio quella relativa ai prezzi. I SoC Apple Silicon consentiranno di fare Mac più accorti nel consumo energetico, più ottimizzati tra hardware e software, forse anche più potenti, ma significherà anche più economici? Proviamo a fare qualche conto della serva. Consideriamo la stimata distinta base, o Bill Of Materials, di un iPhone 11 Pro Max da 512GB, quello che noi vediamo in vendita al prezzo di listino di 1689€ (sappiamo che tramite rivenditori terzi, ufficiali e non, si possono ottenere sconti più o meno consistenti, ma ai fini della narrativa consideriamo il prezzo ufficiale Apple).

In base ai calcoli effettuati da Tech Insights nel suo teardown (via iMore), il costo della componentistica risulterebbe di $490,50, con l’A13 Bionic a rappresentarne $64. Il solo Core i5-1038NG7 adottato dagli ultimi MacBook Pro 13″ ha un prezzo consigliato all’ingrosso di $320. Presumendo pure con un buon grado di sicurezza che Apple abbia contrattato con Intel un importo inferiore, sulla carta si potrebbe dire che non ci sarebbe storia: il cambio di processore sarà un win-win per tutti, azienda e consumatori. In realtà, non è proprio così.

BOM = Bill of Materials

Il BOM dà una buona stima dei costi di produzione del dispositivo e, nel caso analizzato, ci dice che  uno smartphone che costa 437,24€ (al cambio attuale) Apple ci faccia lauti guadagni vendendolo ad oltre 1000€ in più. Che i guadagni siano lauti è vero, ma l’utile presenta margini inferiori di quanto si possa credere ad un occhio superficiale. La distinta base è solo parte del cosiddetto costo del venduto, o Cost Of Goods Sold, che deve tenere conto di tutte le altre spese, variabili e continue: ricerca e sviluppo (anche del software), marketing, supporto, distribuzione e tanto altro ancora. Costi che si possono sapere in generale nei bilanci trimestrali, ma non per singolo dispositivo, a meno di non lavorare alle dipendenze di Luca Maestri, l’italianissimo CFO (Chief Financial Officer) di Apple. Anche essendo del settore non è possibile stimarli efficacemente sulla base di esperienze o prodotti simili. A ciò vanno poi aggiunte le tassazioni dei singoli Stati. In sostanza, a Cupertino ottengono profitti davvero invidiabili, tuttavia non sono così tanto ingordi come poteva sembrare dal primo conteggio, e questo vale tanto per il prodotto finito quanto per i componenti sviluppati in casa, come appunto il SoC.

Apple ha già reso chiaro che i Mac utilizzeranno processori con micro-architetture di base comuni a quelli degli iDevice, ma con caratteristiche distintive

Tenendo conto di tutto questo ed anche della buona probabilità che a SoC più nuovo e potente corrisponda un costo vivo più alto, è poco verosimile che si assista ad un risparmio particolarmente tangibile per il cliente finale rispetto agli attuali modelli Intel, almeno nella fase iniziale. È qui che i rumor riguardanti l’inizio della transizione tramite i MacBook Pro, e non con modelli inferiori, assumono il maggior senso: sono prodotti che vendono bene, ma rivolti ad un pubblico dalle esigenze specifiche, disposto a pagare il premium price. Agganciandoci magari il rumoreggiato passaggio agli schermi da 14″ come ulteriore attrattiva, essi potranno ammortizzare i costi iniziali della transizione ed eventualmente trasferire i benefit del risparmio su modelli successivi più di massa, come MacBook Air o MacBook. Se ci si pensa, è ciò a cui si assiste tra iPad Pro e gli altri modelli, coi primi nella fascia più alta che permettono ai secondi di avere prezzi d’attacco più vantaggiosi. Non è poi da escludere che, piuttosto di badare alle cifre, Apple prediliga aumentare il valore a parità di prezzo, con più RAM e/o spazio d’archiviazione, perché a loro costano decisamente meno e possono servire a celare un effettivo aumento di prezzo. L’ha già fatto in passato e probabilmente lo rifarà ancora.

Un’obiezione a questo discorso potrebbe venire spontanea osservando il Developer Transition Kit, con un Mac mini fornito a $500 dotato di A12Z Bionic, 16GB RAM e 512GB SSD. Tuttavia questo è solo un noleggio, con la stessa formula con cui 15 anni va venne offerto un Power Mac Intel a $999. È chiaro che questi non sono e non saranno i prezzi di vendita.

Il Mac mini del DTK non ha Thunderbolt

Nulla vieta di pensare ad altre aree in cui Apple potrebbe ridurre i costi, contrattando coi fornitori terzi o eliminando componenti ridondanti, come le GPU dedicate qualora il comparto grafico dei SoC Silicon raggiungesse prestazioni tali da rendere superflue le Radeon su alcuni (o tutti) i Mac più spinti. Si può poi rosicchiare qualcosa anche evitando licenze superflue.

Un possibile indizio? Il Developer Transition Kit dispone di porte USB-C “semplici”, prive del supporto Thunderbolt. Una tecnologia cui Apple ha contribuito allo sviluppo, essendone anzi proprietaria agli esordi prima di cederla ad Intel per favorirne una diffusione più estesa. Lo scorso anno è stato ufficializzato il nuovo standard USB4, che di fatto si basa sul protocollo Thunderbolt 3 offerto in modalità royalty-free da Intel al consorzio USB-IF. Tuttavia, l’utilizzo del marchio in sé e la certificazione ufficiale Thunderbolt richiedono sempre un emolumento economico a favore del colosso di Santa Clara. Tenendo conto che i primi dispositivi USB4 sono attesi proprio entro la fine dell’anno corrente, sembra tutto ben predisposto per vederne l’utilizzo nei Mac con SoC Silicon, che col nuovo standard potrebbero continuare ad usufruire degli accessori Thunderbolt senza citarne il nome. Ad ogni modo, siamo nel campo delle congetture: rumor di qualche mese fa vedono l’adozione ufficiale della USB4 da parte di Apple non prima del 2022 e, in generale, non si può escludere che la mela decida di mantenere almeno un punto di contatto con Intel continuando ad includere porte certificate Thunderbolt.

Per un po’ in campo insieme?

Nel nostro precedente articolo sui rischi e vantaggi, abbiamo già analizzato sul piano tecnico come potrebbe avvenire l’avvicendamento tra i Mac Intel e quelli con Apple Silicon, stimando per i primi almeno 6 anni di potenziale vita utile, se non pure oltre. Qui invece proviamo ad approfondire il piano commerciale della questione. Guardiamo innanzitutto al passato, alla transizione da PowerPC ad Intel: nel keynote inaugurale della WWDC 2005, Steve Jobs promise una transizione nel corso di due anni, con prodotti PowerPC ancora in uscita. In effetti, almeno per quest’ultimo punto fu così, dato che ad ottobre 2005 uscirono gli iMac G5 con iSight e i Power Mac con processori G5 dual-core; negli stessi mesi anche iBook, PowerBook e Mac mini furono oggetto di lievi revisioni. La transizione hardware in sé, tuttavia, durò molto meno di due anni: il 10 gennaio 2006, alla conferenza annuale Macworld, entrarono in commercio i primi iMac e MacBook Pro con Intel Core Duo e la gamma PowerPC uscì definitivamente di scena a novembre dello stesso anno con l’avvicendamento di processori sugli Xserve. In un anno e quattro mesi dall’annuncio della transizione, la vecchia guardia divenne un ricordo.

Lo scorso lunedì 22 giugno, Tim Cook ha di fatto affermato tempistiche di transizione hardware analoghe a quelle passate, ovvero stimate in due anni, comprendendo ancora il rilascio di nuovi Mac basati su processori Intel.

La transizione precedente può darci qualche indizio

Guardando sempre alla precedente transizione, i modelli Intel sostituirono immediatamente i corrispondenti PowerPC, interamente oppure a tappe: il MacBook Pro da 17″ arrivò dopo quello da 15″, lasciando così per alcuni mesi ancora sul mercato il PowerBook più grande, insieme a quello piccolo che fu poi rimpiazzato insieme all’iBook dal MacBook da 13″. L’unico curioso caso di breve convivenza, almeno in base alle fonti disponibili (come il noto Mactracker) fu l’iMac da 20″, dove da gennaio a marzo 2006 furono in vendita contemporaneamente sia il modello G5 che quello Core Duo. In base a quanto presentato, potremmo trovarci ad un processo di staffetta molto simile anche nel passaggio ad Apple Silicon.

Il concetto di fondo per lo switch è il medesimo, ovvero una roadmap futura molto più promettente per la nuova architettura di elezione, soprattutto per quel che concerne il rapporto prestazioni-consumi. Sempre riferendoci all’approfondimento sui rischi e vantaggi, abbiamo potuto constatare come, almeno in base ai numeri dei benchmark, i SoC Apple hanno un comparto CPU molto potente in grado di rivaleggiare con Intel, sia in single-core sia in multi-core, perlomeno guardando all’ambito laptop. Se però si considerano i processori mobile Intel più potenti, quelli desktop e s’inseriscono le GPU dedicate nel mix, la situazione cambia. Al contrario, 15 anni fa i PowerPC erano già del tutto fuori dalla partita: il Developer Transition Kit d’allora si faceva tranquillamente beffe dei G5 pur adoperando un Pentium 4 che non sarebbe stato impiegato nei prodotti commerciali (che ebbero fin da subito CPU superiori).

In realtà, almeno per il momento, non sappiamo fino a quanto il DTK con A12Z Bionic potrà spingersi. Le aspettative non sono poche dal momento che con una migliore areazione rispetto a quella fattibile negli iPad Pro e la non necessità di contenimenti energetici, potrebbe andare a pareggiare o superare l’i9 del MacBook Pro da 16″. E non dobbiamo dimenticarci che gli Apple Silicon saranno SoC nuovi specifici per Mac, quindi il margine di manovra nei modelli finali sarà ancora più ampio.

Sarà però improbabile, almeno nel breve termine, raggiungere le prestazioni multi-core dei Mac Pro e delle Radeon sul piano grafico. Motivo che spinge a pensare che la durata di questa transizione si avvicinerà davvero ai due anni dichiarati o addirittura li eccederà. E non necessariamente di poco, per quanto si vorrà evitarlo a tutti i costi.

Scenari di transizione

In base agli elementi in nostro possesso, ufficiali da Apple, deducibili o ipotizzabili, sono molteplici gli scenari che possiamo provare a configurare:

  1. Via due (Intel e AMD), dentro l’altro: esattamente quanto avvenne nel 2006. A mano a mano che i SoC saranno disponibili e sufficientemente potenti a sostituire il modello Intel uscente, Apple effettuerà l’avvicendamento. Abbiamo già parlato dei MacBook Pro da 13″/14″ come i maggiori candidati ad avviare la transizione hardware entro l’anno e lo ribadiamo qui. Appoggiandoci ai rumor, nel corso del 2021 toccherebbe poi al riprogettato iMac, di cui nel frattempo è comunque attesa una versione Intel traghettatrice. In seguito, anche con l’appoggio della seconda generazione di Silicon per Mac, verrebbero coinvolti i computer più entry-level nella gamma, come Mac mini, MacBook Air e il chiacchierato ritorno del MacBook da 12″ (come modello sotto la soglia 999€?), per poi arrivare a Pro da 16″, iMac Pro e dunque concludere in bellezza nel 2022 coi Mac Pro.
  2. Via uno (solo Intel), dentro l’altro: variante del primo scenario, che tiene conto della possibilità che si mantengano le GPU dedicate sui modelli top. In questo caso, i MacBook Pro da 16″ e gli iMac potrebbero essere convertiti ai SoC Silicon più velocemente. Ciò accelererebbe pure i tempi per gli entry-level, mentre i due Pro desktop passerebbero sempre nella parte finale della transizione.
  3. Tutti insieme, dove serve: questo terzo scenario non preclude la permanenza di modelli Intel nelle varie tipologie di prodotti, anche se solo per specifiche configurazioni e sempre per il tempo strettamente necessario affinché i SoC di casa siano in grado di rimpiazzarli. Per esempio, Apple potrebbe decidere di passare subito ad ARM i MacBook Pro 13″ con due porte Thunderbolt, utilizzando invece gli imminenti processori Intel della serie Tiger Lake (il chipmaker sta spingendo sull’acceleratore) sulle configurazioni con 4 porte. Similmente potrebbe avvenire negli iMac, coi Silicon destinati alle varianti d’ingresso e il resto della gamma affidato alle CPU Intel generazione Comet Lake. Lo scenario sarebbe applicabile sia in caso di permanenza sia di rimozione delle Radeon.
  4. Tutti insieme: quarto ed ultimo scenario, il più improbabile ma non per questo totalmente impossibile, anche perché piuttosto facile da strutturare. Per i due anni di transizione, Apple potrebbe decidere di lasciare la massima scelta agli utenti, con ogni modello disponibile in doppia configurazione, tanto con SoC Silicon quanto con processore Intel, magari con la sola eccezione già citata del Mac Pro.

Quattro scenari, dal più al meno plausibile, dal più al meno complicato. Tutti hanno però due cose in comune: non prevedono altre fantasiose soluzioni di mezzo (come i Ryzen, che si è ben capito non interessano ad Apple) e, a prescindere dal modo, arrivati ad un certo punto non ci saranno più in vendita Mac dotati di processori Intel.

Gli utenti potrebbero non acquistare più Mac Intel

Quanto iniziato lunedì è un percorso da cui non si potrà tornare indietro dicendo “abbiamo scherzato” e le dichiarazioni di Apple dovranno non solo essere sostenute dai fatti, ma anche reggere alla prova del tempo con miglioramenti costanti alle sue micro-architetture. Cook e soci dovranno inoltre essere bravi a non incappare nell’effetto Osborne, che può già essersi suscitato in molti utenti intenzionati ad acquistare uno degli attuali Mac, i quali, preoccupati della loro prematura obsolescenza, potrebbero decidere di rinviare la questione al cambio di processore. Altrettanto rischioso l’effetto opposto, definibile “di emergenza”, come le scorte fatte in tempi di guerra o pandemia (ne sappiamo qualcosa): acquisti massicci di modelli Intel correnti sulla base di possibili problemi di affidabilità delle prime generazioni Silicon (o per la compatibilità con Boot Camp). Tali effetti potrebbero avverarsi con gravità crescente in ogni scenario, specialmente nel terzo e nel quarto, rischiando di minare o perlomeno rallentare in modo sensibile le tempistiche effettive di transizione. Lasciamo al marketing Apple il compito di smarcarsi dai pericoli.

Il costo del software

Non possiamo infine non parlare brevemente del software. Apple ha illustrato i 4 principali capisaldi della transizione da questo punto di vista, tutti integrati già a partire da macOS 11 Big Sur: Universal 2, ovvero eseguibili unici compilati sia per Intel che per Silicon; Rosetta 2, che converte in tempo reale le app native Intel; la virtualizzazione, per far girare sistemi operativi terzi, principalmente Linux; infine, l’esecuzione nativa sui Mac Silicon delle app iOS e iPadOS. Sul piano tecnico, gli strumenti messi a disposizione da Apple agli sviluppatori sono molteplici e ben fatti, e abbiamo già espresso negli altri articoli le nostre considerazioni a riguardo. Sul piano economico, però, ci sono delle inevitabili considerazioni da effettuare.

Qual è la situazione più conveniente per utenti e sviluppatori? Nel breve termine, sarà senz’altro Rosetta 2. Escludendo quelli che utilizzano istruzioni x86_64 particolari come AVX e i software di virtualizzazione, il dev potrà scegliere di non fare alcuno sforzo, proseguirà a sfornare l’app compilata per Intel ed al resto penserà Apple. Questo significa che non ci saranno costi aggiuntivi relativi allo sviluppo ed al supporto di due varianti, non ricadendo così sul prezzo finale delle app. Il rovescio della medaglia è che può diventare dispendioso sul lungo termine. Presto o tardi, com’è già successo nella precedente transizione, Rosetta scomparirà e ci si dovrà affidare solo alle app native ARM. Poiché, come ben si sa, chi primo arriva meglio alloggia, sarà preferibile evitare di affidarsi per troppo tempo all’emulazione. Si tratterà di una soluzione temporanea e come tale andrà considerata.

Rosetta 2 è comodo, ma è meglio non abusarne

Apparentemente economica, ma più insidiosa, è la strada dell’app iOS/iPadOS eseguita su Mac senza modifiche, ovvero non ricorrendo a Catalyst. Anche qui, lo sviluppatore manterrà solo l’onere di sviluppare l’app principale, senza impegni aggiuntivi. I problemi sono però molteplici. Innanzitutto, si dovrà considerare che per un buon periodo il software non raggiungerà la maggior parte dell’utenza di macOS, dato che i modelli Intel non spariranno da case e uffici nel giro di una notte. Ci sarebbero poi introiti persi, dal momento che chi l’ha già acquistata su iPhone o iPad l’avrà automaticamente pure su Mac, e chi ha una doppia versione e non intende aderire alle Universal Purchase su tutti i sistemi rischia magari di vedere preferita la variante iOS in quanto quasi sempre più economica, costringendo magari ad un aumento di prezzo per scoraggiare tale pratica. Tutti motivi per cui Apple lascerà libera facoltà agli sviluppatori se rendere disponibile la loro app destinata agli iDevice anche nell’App Store destinato ai Mac con SoC Silicon. C’è poi anche un potenziale discorso d’immagine: lo sviluppatore che si affiderà solamente a questo metodo, senza almeno prendersi la briga di fare qualche sforzo con Catalyst per rendere la propria creatura più a suo agio su macOS, potrebbe apparire in cattiva luce rispetto ad altri con app concorrenti che invece offrono app Mac native.

Appare chiaro come la strada Universal 2 sia quella più efficace per gli sviluppatori, anche se dispendiosa nei primi anni. Le grandi software house, come Adobe e Microsoft, che stanno già abbracciando la transizione ad Apple Silicon per i loro prodotti su macOS, possono permettersi di ammortizzare facilmente e rapidamente l’impegno senza gravare sui clienti. Diverso per le piccole aziende e gli indipendenti che, seppur facilitati dalla compilazione unica di Xcode in grado di sfornare in molti casi un binario a doppia architettura senza ulteriori interventi sul codice, dovranno comunque investire sui nuovi Mac ARM e al contempo mantenere quelli Intel, in modo da testare continuamente la compatibilità con prodotti vecchi e nuovi così come con gli aggiornamenti di macOS. Tutti costi, incluso il mantenimento per svariati anni, almeno fino a quando Apple non rimuoverà il requisito del formato Universal, per i quali inevitabilmente lo sviluppatore dovrà scegliere se assorbirli, avendo fiducia nell’ammortamento a lungo termine che in ogni caso avverrà, oppure aumentare il prezzo delle proprie app, al fine di ripagarsi più rapidamente degli investimenti. Tali scenari potrebbero anche favorire ancor più di adesso l’adozione di modelli in abbonamento, che garantiscono un flusso costante d’introiti in cassa.

Qualcuno sarà costretto a comprare un PC Windows?

In conclusione, affrontiamo la questione delle macchine virtuali, sempre più con un occhio ai bilanci che all’ingegneria, su cui invece ci siamo soffermati parlando delle (per ora poche) chance di arrivo per Windows sui Mac con SoC Silicon. Per chi sviluppa app destinate non solo a macOS, ma anche a Linux ed altri sistemi Unix-like, la virtualizzazione potrà dare una mano importante se in grado di sfruttare a dovere l’hardware sottostante (quanto visto alla WWDC punta ad un supporto analogo a quello dato da tecnologie come le Intel VT). Con Windows non ci saranno molte scelte, qualora le posizioni di Apple e Microsoft non cambiassero, ossia la prima non svilupperà Boot Camp per Silicon e la seconda non adatterà il suo sistema operativo a girare sui SoC cupertiniani nemmeno tramite la virtualizzazione.

Per il momento, il “lusso” di poter avere entrambi gli ambienti su un singolo computer è destinato a sparire ed era comunque comodo da avere, anche se alla fine il bacino d’utenza di Boot Camp non è così grande come si possa pensare e coinvolge perlopiù specifici ambiti che non possono essere soddisfatti dalle macchine virtuali (professionali, come ad esempio il CAD, o più semplicemente il gaming). Qualora non potessero sostituire con controparti Mac la specifica, o le specifiche, app solo per Windows di cui hanno necessità, alcuni utenti avranno di fronte tre opzioni:

  1. acquistare un Mac Intel o tenere quello già in loro possesso, consci che il supporto futuro in termini di aggiornamenti sarà meno esteso di quello dei Mac Silicon e che poi si dovrà ricadere in una delle altre due possibilità;
  2. acquistare un Mac coi nuovi SoC e un PC Intel con Windows, con maggiore occupazione di spazio e spesa;
  3. passare integralmente alla piattaforma di casa Microsoft, rinunciando a macOS (chi pensa di tamponare con la soluzione hack si scontrerà con le stesse difficoltà di chi proseguirà coi Mac Intel, prima o poi non avrà più nuove versioni di macOS da installare).

In tutti i casi ci sono costi non indifferenti in gioco, nella terza opzione comprensivi pure del riacquisto di eventuale software su licenza di cui si disponeva su Mac.

I primi dati concreti sono in arrivo

Insomma, c’è veramente tanta carne sul fuoco, sia che se si guardi la transizione con l’occhio tecnico che con quello commerciale. La moltitudine di varianti da ambo i lati è elevata e non possiamo che fare supposizioni, speriamo quanto più possibili sensate, analizzando i dati alla mano e lo storico. Tra pochi mesi inizieremo a capire meglio la strada che percorrerà Apple e sapremo se e quanto avremo intuito. Nel frattempo continueremo senz’altro a ritornare sull’argomento, anche perché nelle prossime settimane i DTK inizieranno a raggiungere le case degli sviluppatori ammessi allo Universal Quick Start Program e, per quanto termini e condizioni formalmente vietino di farlo, sarà inevitabile l’arrivo di testimonianze, prove e benchmark. Il divertimento è solo all’inizio.

Giovanni "il Razziatore"

Deputy - Ho a che fare con i computer da quando avevo 7 anni. Uso quotidianamente OS X dal 2011, ma non ho abbandonato Windows. Su mobile Android come principale e iOS su iPad. Scrivo su quasi tutto ciò che riguarda la tecnologia.